A oggi non conosciamo ancora i dettagli delle singole misure che il Governo deve specificare con la Legge di bilancio. Ma certo, pur col necessario beneficio del dubbio, le scelte fin qui ufficializzate con la Nota di aggiornamento del 27 settembre e i contenuti anticipati con il Documento programmatico di bilancio varato lunedì scorso e inviato a Bruxelles, sembrano andare in una direzione opposta a quella necessaria.
La manovra di bilancio di cui avrebbero bisogno il nostro Paese e il suo Mezzogiorno per poter risanare le proprie ferite sociali dovrebbe affrontare infatti i problemi chiave del tessuto economico italiano. In particolare: rafforzare la capacità di investimento delle imprese per sviluppare competitività e occupazione in un contesto internazionale reso più difficile dalla guerra dei dazi; rendere più omogeneo il tessuto produttivo del Paese promuovendone una crescita differenziale nel Mezzogiorno; curare la formazione e l’inserimento nel mercato del lavoro di quanti in questi anni di crisi sono rimasti indietro, in modo da includerli nel processo di crescita. Ma la manovra annunciata lunedì scorso dal Governo imbocca un’altra strada e non a caso ha finito per aggravare la reazione negativa degli investitori.
Prima di tutto, la “deviazione senza precedenti” dal sentiero di rientro del disavanzo strutturale, che è l’indicatore chiave della capacità effettiva di un Paese di ripagare il proprio debito e quindi della sua sostenibilità, ha innescato una crisi di fiducia sui mercati finanziari con effetti molto pesanti di caduta del valore dei titoli e di aumento dei tassi di interesse. Le ricadute negative riguardano prima di tutto le famiglie, che vedono ridotto il valore dei loro risparmi e devono fronteggiare tassi di interesse più alti su mutui e prestiti personali. Ma toccano pesantemente anche le imprese e le loro capacità di investimento attraverso due canali principali: la caduta del valore dei titoli del debito pubblico crea difficoltà di bilancio per le banche che li hanno sottoscritti (e hanno garantito così il finanziamento del settore pubblico) e riduce quindi la loro capacità di offrire credito alle imprese; il forte aumento dei tassi di interesse peggiora costi e condizioni di finanziamento per gli investimenti.
Su questo terreno già difficile arrivano, stando al Documento programmatico di bilancio, un aumento netto di imposizione per le imprese (il saldo tra riduzioni e aumenti di imposte appesantisce il carico tributario per circa 6 miliardi di euro nel 2019) e i tagli agli incentivi di Industria 4.0 e quindi al sostegno degli investimenti. Alle politiche per il Mezzogiorno, poi, i documenti del Governo non accennano neanche e, stando almeno alle quantificazioni presentate a Bruxelles, non sembrano previsti né il rifinanziamento del credito d’imposta per gli investimenti al Sud né quello della decontribuzione differenziale a favore dell’assunzione di giovani meridionali.
Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, su cui mi sono soffermato già in questa rubrica, al momento sappiamo solo che dovrebbe partire dal primo gennaio prossimo e dovrebbe soppiantare il reddito di inclusione (Rei). Il rischio molto concreto è che ne risulti vanificata la costruzione dei percorsi di reinserimento che i servizi sociali dei Comuni stanno facendo in attuazione del Rei e che il sussidio cominci a essere erogato molto prima di aver messo i Centri per l’impiego in grado di valutare correttamente le condizioni economiche dei richiedenti e di predisporre i percorsi di reinserimento. Se l’esito dovesse essere questo, la misura si risolverebbe nella mera erogazione di trasferimenti senza alcun effetto sull’inclusione dei più sfortunati. Anzi, fornirebbe terreno fertile per la diffusione ulteriore di quei fenomeni di lavoro sommerso e illegalità che frenano la ripresa dell’economia italiana e contro i quali si battono tanti giovani impegnati nel riscatto del Mezzogiorno.
Se a questo aggiungiamo quota 100, ossia un provvedimento che – almeno nelle dichiarazioni – non si limita a dare la giusta flessibilità all’età di pensionamento ma punta a rompere il legame tra pensione e contributi versati, allora dobbiamo concludere che non stiamo parlando di una manovra per la crescita: stiamo parlando di provvedimenti che, premiando nei fatti il non lavoro, finiranno alla resa dei conti per accentuare il carico fiscale e contributivo sui lavoratori giovani in attività e sulle imprese, erodendo la base stessa della crescita e le speranze dei cittadini italiani e prima di tutto dei cittadini del Meridione.
Articolo del 21 ottobre 2018 per il Corriere del Mezzogiorno