In economia la fiducia è la scintilla che fa girare il motore. Lo spiegava più di duecento anni fa il fondatore della scienza economica, Adam Smith, quando sottolineava come un sistema di scambi di mercato per funzionare abbia bisogno sì di regole – e di regole stabili – ma non possa comunque operare senza un adeguato grado di fiducia di ognuno nella buona fede e nella sincera volontà di rispettare le regole da parte degli altri. E circa ottanta anni fa, nella sua Teoria Generale, John Maynard Keynes considerava lo “stato della fiducia” come la determinante principale degli investimenti delle imprese: un imprenditore basa la sua decisione se effettuare o meno un investimento sulle previsioni riguardo alle condizioni di mercato entro cui in futuro si troverà a operare e sul grado di affidabilità che attribuisce a quelle previsioni, lo “stato della fiducia” appunto, che risente in modo decisivo del contesto delle relazioni sociali e istituzionali.
Ed è purtroppo proprio la fiducia che, come tutti gli indicatori disponibili segnalano, è stata incrinata dalle scelte compiute dal Governo negli ultimi mesi. Il segno “meno” ricomparso davanti al nostro Pil nel terzo trimestre di quest’anno dopo quattro anni di crescita – limitata ma pur sempre crescita – suona come un campanello d’allarme da non sottovalutare, in sé ma ancor più per le cause che lo spiegano. A determinare la flessione della produzione è infatti la domanda di beni di consumo da parte delle famiglie e quella di beni di investimento da parte delle imprese, mentre la domanda estera continua a dare un contributo positivo sebbene in rallentamento.
Su quest’ultimo agisce a sua volta il rallentamento dell’economia europea, prevedibile anche per le incertezze sul quadro degli scambi internazionali determinate dalle scelte protezionistiche dell’attuale amministrazione americana. Come pure prevedibili sono gli effetti di possibile rallentamento derivanti dal prossimo ritorno a condizioni meno espansive della politica monetaria della Banca Centrale Europea. Ma proprio in questa prospettiva sarebbe stato necessario curare la tenuta della nostra ripresa economica, preservandola dai rischi di instabilità finanziaria, in modo da contenere il differenziale con i tassi di interesse negli altri Paesi europei (il cosiddetto spread), e rafforzando le misure a sostegno degli investimenti e della competitività del nostro sistema produttivo. Era questa la strada per mantenere alto il livello di fiducia di famiglie e imprese sulla prosecuzione e possibilmente l’irrobustimento della ripresa economica italiana iniziata nel 2015.
La flessione dei consumi e la riduzione degli investimenti che spiegano la fermata del Pil sono invece la conseguenza visibile di quel calo della fiducia che gli indici registravano ormai da qualche mese. Quando viene meno la fiducia sulle prospettive economiche individuali e collettive, le famiglie riducono i consumi per cautelarsi aumentando il risparmio e le imprese sospendono le decisioni di investimento. E non si può evitare di collegare tutto questo alla perdita di credibilità nella gestione del bilancio e del debito pubblico e alla conseguente impennata dei tassi di interesse dovuta, prima, alle dichiarazioni rese nella fase di formazione del Governo e confermata, poi, dalle scelte indicate nella Nota di aggiornamento del Def e dai contenuti della Legge di bilancio, centrata su un aumento della spesa corrente da realizzare tagliando le misure a sostegno degli investimenti delle imprese. Né, per quanto se ne sa al momento, i due provvedimenti chiave di aumento della spesa corrente – reddito di cittadinanza e quota 100 – sembrano in grado di evitare la trappola dell’assistenzialismo. Cosicché alla perdita di credibilità riguardo alla finanza pubblica si è aggiunta una perdita di credibilità riguardo alle politiche per la crescita.
Se nei prossimi mesi la fermata dell’economia italiana si confermerà – come purtroppo sembra anticipare la riduzione della produzione industriale e ancor più il calo degli ordinativi nel mese di novembre – anche il Mezzogiorno non potrà che risentirne negativamente. Si può sperare che l’aumento degli investimenti delle imprese nel 2017 e nella prima parte del 2018 innescato dal credito d’imposta per il Sud consenta all’economia meridionale di non interrompere del tutto la ripresa del triennio passato. Ma il credito d’imposta non è stato rifinanziato dalla Legge di bilancio, cosicché le risorse si esauriranno nei prossimi mesi. Il Meridione ha bisogno che il Paese cresca, ma la crescita ha bisogno appunto della fiducia.
Articolo del 2 dicembre 2018 per il Corriere del Mezzogiorno