Siamo, in questa domenica, proprio a metà tra 25 aprile e 1 maggio, due feste – quella della Liberazione e quella del Lavoro – che le vicende storiche, nel nostro Paese, hanno collocato l’una a ridosso dell’altra. Una vicinanza felice, perché tutte e due le ricorrenze parlano un linguaggio comune, quello della dignità della persona umana e della sua capacità di costruire il domani per sé, per i propri cari, per la propria comunità. Un linguaggio che tanti meridionali hanno contribuito a definire e che tanto parla al Mezzogiorno di oggi.
Il 25 aprile è data culminante di quella Resistenza contro il nazismo e il fascismo cui giovani e donne, operai, contadini e borghesi del Sud hanno partecipato in prima persona. Rivolte popolari spontanee, intrecciandosi anche con le azioni dei militari che non intendevano arrendersi ai tedeschi, hanno segnato fin dai giorni immediatamente successivi all’8 settembre del ’43 i territori meridionali – da Scafati a Barletta, da Matera a Lanciano, per ricordare solo alcuni episodi – culminando nella vera e propria battaglia partigiana del 25 settembre a Bosco Martese (Teramo) e nelle Quattro giornate di Napoli: tra il 27 e il 30 settembre del ’43 i napoletani cacciarono con le sole loro forze gli occupanti tedeschi, cosicché il 1 ottobre gli Alleati poterono essere accolti da una città già orgogliosamente libera.
Gli scontri proseguirono nei mesi successivi nei territori non ancora raggiunti dalla lenta e dura ritirata tedesca, segnata al Sud come in tante altre parti d’Italia da terribili rappresaglie ed eccidi nei confronti della popolazione civile. Per i tempi di spostamento del fronte, furono Abruzzo e Molise a dover sostenere più a lungo lo scontro con gli occupanti nazisti e fascisti e quindi a dar vita a vere e proprie organizzazioni partigiane, come la Brigata Maiella che dopo aver combattuto nel territorio di origine contribuì alla lotta di liberazione anche nelle Marche, in Emilia Romagna e nel Veneto.
Ed è ancora nel Mezzogiorno che già nell’autunno del ‘43 poterono ricostituirsi le forze armate italiane, grazie ai tanti militari che avevano rifiutato di consegnare le armi ai tedeschi e a quelli che, non volendo aderire alla Repubblica di Salò, riuscirono nel rischioso passaggio delle linee per raggiungere il Governo legittimo insediato prima a Brindisi e poi a Salerno. Furono loro ad affiancare gli Alleati nelle azioni di guerra che seguirono. E furono tanti i soldati e gli ufficiali meridionali che, colti dall’8 settembre lontani da casa, si unirono alle formazioni partigiane operanti nell’Italia centrale e settentrionale dando un contributo decisivo alla liberazione d’Italia.
Liberazione dall’occupazione tedesca, certamente. Ma anche e forse ancor più liberazione dalla vergogna del fascismo che, nato e vissuto di demagogia, aveva portato il Paese prima all’isolamento autarchico – con i suoi costi per la società italiana – e poi all’illusione disastrosa della guerra a fianco dei nazisti.
Il fatto è che la demagogia fa sempre da copertura agli interessi di pochi, come era a quel punto chiaro anche nel Mezzogiorno per la stretta connessione instauratasi tra fascismo e blocco agrario imperniato sul latifondo e sull’oppressione delle masse contadine: lo stesso che aveva prosperato sotto i Borboni, tenendo per tanto tempo bloccato il Sud, e che aveva poi ostacolato il suo sviluppo anche dopo l’Unità d’Italia.
Liberazione quindi, quella del 25 aprile, che consiste nel recupero della dignità degli Italiani come cittadini che insieme scelgono consapevolmente come costruire il proprio futuro. Non a caso, è dall’eperienza compiuta con la liberazione dal nazi-fascismo che, negli anni del dopoguerra, nascono le lotte contadine che, attraverso l’occupazione delle terre, pongono all’ordine del giorno della politica italiana la questione del lavoro al Sud e della sua dignità e aprono la strada alla riforma agraria e all’intervento straordinario per lo sviluppo del Mezzogiorno.
Ed è questa dignità del lavoro che si festeggia il 1 maggio in tutto il mondo: il lavoro è catalizzatore di identità della persona, di emancipazione del proprio progetto di vita e di riscatto da povertà ed esclusione sociale. Contro la demagogia, ossia il sonno della ragione che genera mostri, l’antidoto è il lavoro: perché è il lavoro che con il cuore e la ragione ben svegli costruisce il futuro per il lavoratore, per i suoi cari, per la sua comunità, per il suo Paese.