Quanto cemento cattivo ha conosciuto il Mezzogiorno! Di quanto cemento buono ha bisogno il Mezzogiorno! Quante opere pubbliche inutili o mai completate! E al contrario di quanti investimenti pubblici vi sarebbe necessità! Quanto degrado segna le periferie e l’hinterland delle nostre città e di quanto impegno per la loro rigenerazione urbana avremmo invece bisogno! Molte le riflessioni che la puntata di giovedì scorso di Casa Corriere suscita intorno a queste dicotomie.
Tutti noi conosciamo bene lo scempio edilizio che ha deturpato alcune delle coste più belle del nostro Meridione o ha accerchiato gioielli archeologici e capolavori della storia mediterranea. Così come abbiamo negli occhi quei ponti interrotti a metà per non approdare a nulla o quelle strade iniziate e mai completate. E conosciamo le periferie costruite senza un ordine intellegibile, senza uno spazio per la condivisione sociale, dove si rompono i legami tra gli individui, i gruppi e la comunità cittadina, una lontananza che non è solo fisica ma di vita.
E al tempo stesso sappiamo che nei decenni passati l’inurbamento ha posto un problema gigantesco di diritto alla casa per tutti, un problema cui si è tragicamente risposto con “le mani sulla città” come evidenziava negli anni Sessanta il film di Francesco Rosi. Così come sappiamo che di infrastrutture di trasporto il Mezzogiorno aveva e ha assoluto bisogno e per questo sono affluite negli anni tante risorse che troppo spesso sono finite in opere senza senso. E ci è ben chiaro che la bellezza delle nostre coste ha bisogno di occhi che le guardino, di turismo che le renda un valore per le popolazioni che ci vivono, un bisogno cui lo scempio edilizio ha fornito una risposta miope basata sul guadagno immediato, che compromette proprio quella bellezza che sola può dare prospettive, anche di guadagno, durature.
Insomma, il cemento “cattivo” è stato parte di un modello di sviluppo che ha tradotto in risposte individualistiche, speculative, di corto respiro, le domande sociali generate a partire dal Secondo Dopoguerra dalla crescita democratica del Paese. Oggi che viviamo i costi sempre più inaccettabili di quel modello per il nostro Paese e il suo Mezzogiorno – degrado sociale delle periferie, carenza di infrastrutture essenziali per la qualità della vita e per la crescita economica, sviluppo asfittico del turismo ben prima del Covid-19 – dobbiamo impostare un diverso modello di sviluppo. La svolta europea del Green Deal, che la Commissione Von der Leyen aveva indicato già prima della pandemia e che il Recovery Fund finisce per rafforzare, è una grande occasione che spinge proprio in questa direzione.
Abbiamo bisogno perciò del “cemento buono” – questo appunto il titolo della puntata di Casa Corriere – ossia di un’azione metodica di risanamento dell’ambiente e del paesaggio, di costruzione delle infrastrutture che sostengano la crescita abbattendo l’inquinamento, di rigenerazione delle periferie e dei centri storici delle città. Per limitarmi a tre esempi, ma molti altri se ne potrebbero fare: lo sviluppo turistico che stanno vivendo, a cominciare proprio dal nostro Paese, i territori riconosciuti dall’Unesco quali patrimonio dell’umanità; la centralità degli investimenti ferroviari previsti, in particolare proprio nel Mezzogiorno, dal Piano infrastrutture del Governo, con effetti al tempo stesso di aumento del Pil e di abbattimento delle emissioni e dell’inquinamento; il Piano di risanamento ambientale e di rigenerazione urbana di Bagnoli approvato nell’estate 2017, che disegna un futuro di attività produttive e di servizi e fruibilità degli spazi per i cittadini.
Sono processi che non marciano da soli né sono al riparo da possibili retromarce. Si pensi alle tentazioni sempre presenti di ritorno al turismo di rapina, agli interessi particolari che difendono lo status quo, ai blocchi derivanti dai diritti di veto delle singole amministrazioni coinvolte nei processi autorizzatori, alle pastoie burocratico-procedurali che frenano gli investimenti pubblici.
Per contrastare questi fattori di blocco non serve la cultura della decrescita, che anzi finisce per fare proprio il loro gioco. Serve invece la cultura dello sviluppo sostenibile, ossia la consapevolezza che l’attività umana, di per sé trasformatrice della natura, è chiamata a costruire con essa un vero e proprio ricambio organico, ossia un utilizzo del capitale naturale in forme che ne curino la riproduzione.
Articolo del 26 luglio 2020 per il Corriere del Mezzogiorno