Claudio De Vincenti e Stefano Micossi su il Sole 24 Ore del 12 gennaio 2020
Più la si guarda da vicino, meno la bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) convince. Intanto, ancora non prendono forma definita gli impegni di riforma, che in massima parte paiono generiche indicazioni di obbiettivi – con la sola eccezione del capitolo giustizia. Su questo ampie indicazioni sono contenute nelle osservazioni inviate al governo dall’Assonime, in particolare riguardo alla riforma fiscale, a quella della pubblica amministrazione e all’indispensabile nuovo round di semplificazioni. In secondo luogo, il dettaglio delle 47 linee di intervento contenute nell’allegato alla bozza, nonostante alcuni correttivi, rivela una scelta di fondo molto discutibile, che è quella di affidare la trasformazione dell’economia italiana a una miriade di sussidi e di micro-interventi, sacrificando le infrastrutture e gli investimenti sulle reti (meno di 28 miliardi da investire), aspetti nei quali l’Italia mostra enormi ritardi, ma che non sono popolari nella base grillina e anche in parte in quella del PD. Su questa impostazione il Commissario Gentiloni, nella sua ampia intervista alla Repubblica del 29 dicembre lascia pochi dubbi: essa non potrà trovare l’approvazione della Commissione.
In effetti, l’allegato al PNRR uscito qualche giorno fa propone una incoerente dispersione di risorse senza visione unitaria che non sembra essere stata recuperata nell’ultima revisione; il filo che il Piano sembrava possedere nell’indicazione delle grandi priorità d’intervento appare ora spezzato, tra proliferazione di misure minute e sottodimensionamento di programmi che invece dovrebbero esserne l’asse portante.
Che senso ha, ad esempio, disperdere oltre 5 miliardi in incentivi per le rinnovabili, limitando a molto meno gli investimenti su reti intelligenti e accumuli, che sono invece i veri fattori abilitanti del loro sviluppo? O ancora, senza chiarire come sbloccare la Strategia per le aree interne che in otto anni di vita non ha saputo spendere neanche i 200 milioni assegnati in partenza, dedicarle circa 1 miliardo di euro? O disperdere oltre 1 miliardo in interventi di incentivazione micro-settoriali invece di ricondurli nell’alveo, questo sì importante, di Transizione 4.0 (nuovo nome per Industria 4.0)? O infine dedicare all’incentivazione dei pagamenti elettronici quasi la metà della dotazione di 10 miliardi per la digitalizzazione della PA?
Contemporaneamente, restano sottodimensionati capitoli dal grande potenziale per il rilancio del Paese. A cominciare dalla messa in sicurezza di strade, viadotti e ponti, cui vengono assegnati meno di 2 miliardi di euro. Per continuare con gli investimenti in logistica e portualità, ai quali sono dedicati solo 4 miliardi quando sappiamo che essi costituiscono la via maestra per consentire all’Italia, e in particolare al Mezzogiorno, di essere protagonista degli scambi europei e mediterranei. Così come, incredibilmente, manca del tutto il capitolo delle bonifiche e del rilancio produttivo dei siti industriali dismessi o in crisi. O ancora, appare del tutto sottodimensionato il finanziamento per la realizzazione di impianti di chiusura del ciclo rifiuti, per l’approvvigionamento e il risanamento delle reti idriche, per la sistemazione idrogeologica di un territorio devastato dall’incuria e dall’abusivismo. E, per finire, è una buona idea destinare decine di miliardi all’ecobonus per le ristrutturazioni edilizie, dedicando solo 5 miliardi alle esigenze di risanamento e trasformazione degli assetti urbani delle grandi città, incominciando dalla capitale (il sindaco Raggi per una volta ha ragione da vendere).
Naturalmente, scontiamo qui la carenza progettuale e realizzativa che si trascina da tempo nelle nostre pubbliche amministrazioni e che condiziona la presentazione di proposte di investimento credibili. Questa questione, però, deve esser presa di petto, non può essere aggirata disperdendo i fondi in mille rivoli senza strategia. Anzitutto, varando per legge corsie regolamentari che accelerino la realizzazione degli investimenti e affrontando con determinazione lo sblocco degli interventi bloccati dalla burocrazia e dai veti politici.
Il PNRR deve mantenere i grandi assi prioritari – digitalizzazione della PA, Industria 4.0, banda ultra-larga, attrattori culturali, alta velocità di rete, rigenerazione urbana – concentrando efficacemente gli interventi a sostegno di un numero limitato di scelte prioritarie.
In questo, va sottolineato che le quote da destinare, secondo le prescrizioni europee, alla transizione verde e a quella digitale, possono emergere come risultato complessivo del Piano, non necessariamente come capitoli a sé stanti. Così come la coesione territoriale e il superamento del dualismo Nord-Sud deve costituire un filo rosso che traversa tutte le missioni e i programmi di cui il Piano si compone. Non si tratta di partire da zero ma di recuperare quella visione unitaria e nazionale dispersa nelle 47 linee di intervento.