Come si spiega che al Mezzogiorno il numero di dipendenti di Regioni, Province e Comuni in rapporto alla popolazione sia più alto che al Nord e ciononostante manchino servizi essenziali per la popolazione, dagli asili nido all’assistenza ad anziani e disabili, alle politiche di inclusione sociale e recupero scolastico? Sì, perché questo ci dicono i dati.
L’ultimo Rapporto Banca d’Italia sulle economie regionali (novembre 2020) segnala che nel 2018 i dipendenti degli enti regionali e locali erano 84 ogni 10.000 abitanti al Sud, contro 79 al Nord e 81 al Centro. Vi è chi segnala come negli ultimi dieci anni la riduzione del personale di Regioni e Comuni sia stata proporzionalmente più accentuata nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord, dimenticando però che si partiva da un numero di dipendenti in rapporto alla popolazione molto più alto al Sud: 115 ogni 10.000 abitanti nel 2008, contro 98 al Nord e 103 al Centro. Cosicché ancora oggi, come si è appena visto, l’incidenza sulla popolazione resta maggiore al Sud.
Tanto più colpisce la evidente sottodotazione nel Mezzogiorno di servizi sociali così importanti per i cittadini in territori dove gli indici di povertà e deprivazione sono nettamente più alti che nel resto del Paese. Lo conferma una spesa per i servizi a famiglie e minori, disabili, anziani, inclusione, che risulta in media circa la metà di quella del Centro-Nord (si veda il saggio di Carlo Borgomeo ricompreso nel recente volume collettaneo di Astrid “Una questione nazionale”, Mulino 2020). Un dato, peraltro, che non dipende da una minore disponibilità complessiva di spesa al Sud: ancora sulla base delle statistiche Banca d’Italia, la spesa pubblica corrente pro-capite, al netto delle pensioni, è mediamente superiore a quella del Centro-Nord per quasi 200 euro (Banca d’Italia, novembre 2018). Una differenza che conferma come, contrariamente a una vulgata abbastanza diffusa, la carenza nel Mezzogiorno di servizi sociali comparabili a quelli del Centro-Nord non sia dovuta a una carenza di risorse pubbliche.
La conclusione che si deve trarre – e che ci aiuta a ragionare su quello che si deve fare per colmare il divario di servizi ai cittadini – è che personale e spesa corrente sono male allocati, ossia non vanno a produrre i servizi di cui le persone hanno bisogno. Possiamo farcene una prima idea ancora una volta grazie ai dati Banca d’Italia.
Prima di tutto, vi è una cattiva allocazione tra livelli di governo: la sproporzione nel numero di dipendenti riguarda essenzialmente il personale in forza alle Regioni e ai Comuni di più piccole dimensioni (fino a 20.000 abitanti), mentre quello dei Comuni medi risulta abbastanza allineato e quello dei comuni sopra i 250.000 abitanti risulta inferiore rispetto al Centro-Nord. Una allocazione che è il frutto di una storia di rigonfiamento degli organici regionali e di assistenzialismo diffuso sul territorio.
Ma non è solo questo il problema: nel Mezzogiorno risulta relativamente minore la presenza, all’interno delle pubbliche amministrazioni, di dipendenti ad alta qualifica e maggiore invece la presenza di basse qualifiche, il contrario di quanto necessario per offrire quei servizi di assistenza a famiglie, disabili, anziani, ragazzi a rischio di esclusione sociale, di cui vi è bisogno. Anche qui abbiamo a che fare con il portato di politiche di assunzioni che vengono da lontano e che hanno risposto a logiche diverse da quelle del servizio alla popolazione.
Questa storia ci dice molto su cosa dobbiamo cambiare per rimontare il divario di welfare con il resto del Paese. Non basta definire, come pure è ora di fare, i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) secondo la Legge 42 del 2009. Bisogna superare un difetto di fondo dell’impostazione seguita in quella Legge e che di fatto ha contribuito a bloccarne l’applicazione: in un territorio che soffre la carenza di determinati servizi, se lo Stato si limitasse a finanziare la Regione o il Comune in relazione ai Lep, senza imporre un vincolo di destinazione delle risorse, finirebbe in molti casi solo per alimentare spese che con i servizi di cui i cittadini hanno bisogno non c’entrano nulla. L’innovazione da introdurre consiste allora nel definire un percorso di attivazione e ampliamento dei servizi da parte dell’Ente locale, consentendogli di “tirare” sulle risorse che lo Stato mette per questo a disposizione solo via via che si conseguono gli obiettivi stabiliti.
E’ questa la strada per rompere le incrostazioni di rendita di una parte del ceto politico meridionale e per premiare finalmente quegli amministratori locali – e ce ne sono tanti, specialmente tra i sindaci – che nel Sud si impegnano ogni giorno per il bene delle proprie comunità.
Articolo del 7 marzo 2021 per il Corriere del Mezzogiorno