Il Governo si appresta a varare il cosiddetto Reddito di cittadinanza, di cui circolano ormai bozze ampiamente definite. Non combatterà povertà ed esclusione sociale, ma determinerà lo spiazzamento del lavoro regolare ad opera del lavoro nero. Perché questa scelta? Perché lo scalpo di un successo elettorale alle europee di maggio val bene il sacrificio dell’interesse generale del Paese, con danni incalcolabili non solo per le prospettive di ripresa dell’economia italiana, e in particolare di quella del Mezzogiorno, ma ancor più per la tenuta dell’etica pubblica e della coesione sociale.
Stando alla bozza di decreto in circolazione, potranno beneficiare della misura i residenti in Italia da almeno 10 anni, con reddito annuo inferiore a 6.000 euro per un single – o a 9.360 in caso di abitazione in affitto – da rideterminare per le famiglie sulla base di una scala di equivalenza. Ulteriori vincoli sono introdotti per il patrimonio e per il possesso di auto o altri beni durevoli. Il sussidio consiste in una integrazione del reddito fino al raggiungimento della soglia di 6.000 euro annui (500 mensili) moltiplicati per la scala di equivalenza e in un’ulteriore erogazione di 3.360 euro annui (280 mensili) nel caso di abitazione in affitto. Il sussidio viene erogato dal mese successivo a quello di presentazione della domanda e spetta per un periodo massimo di diciotto mesi rinnovabile più volte. L’erogazione avviene attraverso la Carta RdC che ricalca la carta acquisti varata nel 2008 dal Governo Berlusconi.
I Centri per l’impiego convocano il beneficiario entro 30 giorni dalla concessione del sussidio al fine di concordare un Patto per il lavoro in cui egli si impegni ad attività di formazione e ricerca di lavoro e ad accettare almeno una offerta di lavoro su tre che gli vengano presentate. Altrettanto fanno i Servizi sociali dei Comuni nei confronti dei beneficiari non in condizioni di occupabilità immediata, con i quali concordano un Patto per l’inclusione sociale.
Nel caso il numero di richieste sia tale da portare all’esaurimento delle risorse stanziate dalla Legge di bilancio, il sussidio verrà corrispondentemente tagliato.
Tralasciando gli aspetti più tecnici del provvedimento, su cui pure – come hanno rilevato diversi commentatori – ci sarebbero molte critiche da fare, vengo al cuore del problema. Formalmente, le disposizioni che ho riassunto sembrano rispondere all’esigenza di collegare il sussidio alla definizione e attuazione di percorsi di reinserimento sociale e lavorativo dei destinatari. Ma si guardi bene alla successione temporale dei passaggi applicativi come definita dal decreto.
Prima di tutto viene l’erogazione concreta del sussidio, assicurata a ogni richiedente entro trenta giorni dalla domanda. Solo dopo il Centro per l’impiego o i Servizi sociali del Comune convocano il beneficiario per elaborare il percorso personalizzato. Si tratta di amministrazioni che lo stesso Governo – prevedendo nel decreto future consistenti assunzioni di personale e potenziamenti delle strutture – considera oggi inadeguate a fronteggiare – per una platea dichiarata di 1 milione e 700 mila famiglie – una procedura così complessa e delicata come quella della definizione, realizzazione e monitoraggio dei programmi di reinserimento.
Dobbiamo aspettarci quindi una fase lunga di erogazione del sussidio in assenza di qualsiasi forma di indirizzo e controllo. E questo significa inevitabilmente il proliferare di abusi e illegalità: fruizione del sussidio e contemporanea erogazione di lavoro sommerso, licenziamento da parte del datore di lavoro e riutilizzo del lavoratore in nero con aggiramento degli obblighi contributivi e fiscali. Non solo, ma la stessa applicazione di alcune norme del decreto – come l’obbligo di accettare non la prima offerta di lavoro congrua ma “almeno una di tre” – garantisce di per sé la possibilità di usufruire del sussidio per un periodo lungo senza condizioni. Né a evitare questi risultati serve lo sconto contributivo per le imprese pari, nel caso di assunzione, alla parte del sussidio di diciotto mesi non ancora goduta dal beneficiario: la possibilità di rinnovare più volte quel periodo rende in ogni caso più conveniente il ricorso al lavoro nero.
Una volta innescato un simile meccanismo di abusi, sarà molto difficile recuperare il collegamento tra sussidio e vera lotta all’esclusione sociale. Del resto, tutto l’impianto del decreto è il frutto di una logica di breve periodo: erogare a tutti i costi il sussidio prima delle elezioni europee, con la riserva di tagliarlo più avanti facendo finta di scoprire solo allora che le risorse non bastano.
Articolo del 13 gennaio 2019 per il Corriere del Mezzogiorno