Lo scontro in corso tra i Governi dei Paesi europei sugli strumenti con cui affrontare la crisi economica innescata dalla pandemia di coronavirus segue il braccio di ferro andato in scena a febbraio sul bilancio 2021-27 dell’Unione, il cosiddetto Quadro Finanziario Pluriennale. L’impasse di un mese e mezzo fa, che ruotava intorno alle prospettive future della politica economica e sociale della UE, si è convertita in un drammatico confronto sul salvataggio qui e subito del sistema economico e sociale europeo. L’esito sarà di importanza vitale per l’Europa, per l’Italia, per il Mezzogiorno.
La linea di faglia è sostanzialmente sempre la stessa. Da una parte, l’organismo propriamente comunitario ossia la Commissione – appoggiata da diversi Paesi, con in testa Francia, Italia e Spagna – che a febbraio proponeva una strategia ambiziosa come il Green Deal sostenuta da un bilancio dell’Unione dotato di risorse più consistenti e che oggi è pronta, e lo ha dimostrato agendo sul Patto di stabilità e sugli aiuti di Stato, a interventi comuni e massicci di sostegno all’economia. Dall’altra parte, alcuni Paesi – capitanati da Olanda e Austria – che, facendo blocco nel seno dell’organismo tipicamente intergovernativo ossia il Consiglio Europeo dei Capi di Stato e di Governo, si opponevano a febbraio a qualsiasi incremento del bilancio dell’Unione e stanno oggi frenando l’adozione di interventi comunitari forti contro la crisi. In mezzo, la Germania, maggiore economia europea, che ha un interesse vitale alla tenuta dell’Unione ma è bloccata da problemi di consenso interno.
Lo scontro è quindi sull’idea stessa di Unione Europea: un conglomerato di interessi nazionali, soggetto al sovranismo dei diritti di veto dei singoli Paesi, o al contrario una comunità che mette insieme obiettivi, risorse, responsabilità, in una logica sempre più sovranazionale. Nel primo caso, ognuno pensa solo a tirare l’acqua al proprio mulino: col risultato, nell’immediato, di registrare (con buona pace dei sovranisti nostrani) semplicemente i rapporti di forza esistenti e, in prospettiva, di condurre tutti a perdere nel confronto con altre aree del mondo, che non stanno davvero ferme. Nel secondo caso, si fanno vivere gli interessi nazionali nel quadro di un più generale e comprensivo interesse europeo, con l’obiettivo di mettere a frutto ile potenzialità che vengono dall’essere una grande area economica integrata, in grado proprio per questo di misurarsi con le altre grandi economie, e dalla condivisione di forti valori democratici e sociali.
L’Italia, seconda economia industriale d’Europa proiettata sui mercati internazionali e culla della civiltà europea, ha un interesse vitale a far sì che prevalga la visione comunitaria dell’Unione. Il suo Mezzogiorno, in particolare, che costituisce la potenziale piattaforma produttiva e logistica di un’Europa che si proietti nel Mediterraneo per poter giocare un ruolo da protagonista dei rapporti internazionali, ha assoluto bisogno di una Unione coesa e solidale.
Ma per battere gli egoismi che puntano a disgregare il tessuto comune europeo, c’è bisogno che il nostro Paese sappia dare un messaggio serio, di chi affronta la drammatica emergenza in cui siamo con la consapevolezza che il futuro non può e non deve essere un semplice ritorno al passato. Per cominciare, sul fronte della finanza pubblica: gli eurobond devono essere proposti come uno strumento per investimenti di crescita comune, non come un escamotage per condividere il nostro debito con chi di debiti ne ha fatti molti meno. E, soprattutto, sul fronte dei nostri problemi strutturali: la ricostruzione post-coronavirus avrà bisogno di un ciclo di investimenti stabile e sostenuto che ricostituisca la base produttiva erosa in passato e colpita duramente dalla crisi attuale e ponga le condizioni della sua crescita futura.
Sappiamo bene come tra i problemi strutturali italiani spicchi il dualismo economico e sociale che segna il nostro Paese. Il Mezzogiorno deve essere protagonista di quel ciclo di investimenti: serve per questo una nuova politica nazionale, ma serve anche una assunzione di responsabilità da parte delle forze migliori della società e della politica meridionali. Anche per il Sud il futuro non può e non deve essere un semplice ritorno al passato degli interessi particolaristici, dell’assistenzialismo, dell’uso inefficiente delle risorse. Il Mezzogiorno ha energie belle da mettere in campo, energie dell’impresa, del lavoro, dell’associazionismo, dei giovani che vogliono poter costruire il proprio progetto di vita. Sta alla politica rinnovarsi per dare voce alle forze migliori della società civile meridionale.
Articolo del 5 aprile 2020 per il Corriere del Mezzogiorno