Purtroppo il testo definitivo del decreto che introduce il Reddito di cittadinanza conferma tutte le preoccupazioni che avevo anticipato due domeniche fa: del tutto inefficaci (per non dire peggio) a evitare il proliferare di lavoro sommerso risultano le norme che gli esponenti del Governo hanno definito, con un termine offensivo verso chi versa in condizioni di reale bisogno, “anti-divano”; e purtroppo, come vedremo, ne risulteranno penalizzati proprio coloro che più meritano di essere aiutati.
L’unica novità positiva, lo si può riconoscere, riguarda la possibilità per l’impresa che assume un beneficiario del reddito di sommare le mensilità di sussidio da lui non ancora godute alla decontribuzione al 100% già prevista per i nuovi assunti nelle Regioni meridionali.
Ma veniamo alle norme sulle condizionalità poste a chi beneficerà del sussidio. Prima di tutto, il testo definitivo del decreto conferma la sua erogazione entro un mese dalla richiesta, senza che sia stato prima definito il percorso di reinserimento da parte dei Centri per l’impiego o dei Servizi sociali dei Comuni. Solo in seguito il beneficiario dovrebbe essere convocato per concordare quel percorso. Ma quando? Il decreto prevede – ma non specifica operativamente – un piano consistente di assunzioni e di potenziamento degli uffici che richiederà diversi mesi se non anni, a conferma che oggi come oggi quelle amministrazioni non sono in grado di gestire in blocco l’impatto di una platea di 1 milione e 700 mila famiglie quale è quella teorizzata dal Governo. Nel frattempo però il sussidio verrà erogato comunque, ossia senza alcun impegno reale da parte dei beneficiari e senza alcuna possibilità di monitoraggio.
Ma in compenso, si dirà, sono state introdotte le cosiddette “norme anti-divano”. Due quelle che si dichiara dovrebbero avere gli effetti più incisivi: pena decadenza dal sussidio, il beneficiario non potrà rifiutare più di due offerte su tre che gli venissero presentate, di cui la prima entro 100 km di distanza dall’abitazione, la seconda potrà estendersi anche ai 250 km e la terza a tutto il territorio nazionale; il beneficiario dovrà inoltre partecipare a progetti di pubblica utilità, ove attivati dal Comune di residenza, per un numero di ore settimanali “comunque non superiore” (sic!) a otto.
Quest’ultima condizione, oltre a prevedere un impegno lavorativo individuale del tutto inadeguato, dipende dall’attivazione o meno di un numero sufficiente di progetti da parte dei Comuni, compito non facile come testimonia l’infelice esperienza passata dei “lavori socialmente utili”. La prima condizione risulta a sua volta estremamente debole: quanto tempo passerà prima di arrivare alla terza offerta di lavoro? E del resto, chi rifiuterà anche quest’ultima usufruirà comunque del sussidio per tutto il periodo precedente: la dichiarazione di disponibilità ad accettare il lavoro resterà sostanzialmente senza seguito concreto.
E’ facile prevedere quanti e quali abusi ne deriveranno nell’utilizzo del sussidio, il tutto a scapito proprio di coloro che più ne avrebbero bisogno: con una clausola finale il decreto dispone che, ove le domande dovessero eccedere le risorse, il beneficio individuale verrà corrispondentemente ridotto; l’illegalità finanziata a spese dei veri poveri.
Auguriamoci che il Parlamento sappia modificare il decreto in modo da finalizzarlo realmente al contrasto della povertà e dell’esclusione sociale. A questo scopo è necessario introdurre, sulla scorta dell’esperienza del Reddito di inclusione, almeno due cambiamenti: prevedere che il sussidio venga erogato solo a seguito della elaborazione del percorso di reinserimento da parte dei Centri per l’impiego o dei Servizi sociali e della sua sottoscrizione da parte del beneficiario, che così assumerebbe impegni reali e non astratti; stabilire l’obbligo ad accettare, pena la decadenza dal sussidio, la prima offerta di lavoro che si riceva e che sia congrua secondo i criteri definiti dall’Agenzia per le politiche attive del lavoro. E’ essenziale inoltre predisporre procedure accelerate per il rafforzamento amministrativo dei Centri per l’impiego e dei Servizi sociali dei Comuni, in modo che possano svolgere adeguatamente le funzioni di cura attiva di quanti sono a rischio di esclusione.
E’ su questo terreno che si misurerà la differenza tra chi punta a distribuire comunque sussidi per interessi elettoralistici di breve periodo e chi ha invece a cuore la lotta alla povertà e all’esclusione sociale.
Articolo del 27 gennaio 2019 per il Corriere del Mezzogiorno