“Copernico ci aveva informati che il nostro pianeta non era il centro dell’universo; … Darwin aveva spiegato che discendevamo dalle scimmie; … Freud ci aveva raccontato che sotto la nostra arrogante pretesa di essere razionali si celava un’oscura selva di pulsioni. Credo che questa pandemia riveli un ulteriore esempio di impotenza umana”, costringendoci a ritrovare “il senso del limite”. E’ questo Il quarto shock (Luiss University Press, maggio 2020) intorno al quale si interroga – combinando insieme linguaggio piano e densità di pensiero – Sebastiano Maffettone, voce autorevole della filosofia politica.
Il libro si muove su un crinale delicato, tra posizioni culturali diverse e a tratti contrapposte, che il filosofo napoletano mette a confronto senza pregiudizi e con un lucido spirito critico che lo conduce a una scelta di valore profondamente sentita.
La sua analisi parte dalla specificità della crisi che stiamo attraversando, determinata – a differenza da altre che l’hanno preceduta, come quella del 2008 – da una causa esterna all’economia. L’ipotesi di lavoro – e l’Autore sottolinea come di ipotesi si tratti, non di certezza – è che la pandemia sia una “reazione ambientale” dovuta a uno “sfasamento temporale” tra velocità della crescita tecnologica ed economica da un lato e ritmo dell’evoluzione con cui l’uomo è in grado di “fare suo, geneticamente e psicologicamente, il tempo della crescita esterna”.
Qualcuno potrebbe vedere in questa ipotesi un’eco, anche se lontana, della contrapposizione, teorizzata più di due secoli fa da Rousseau, tra uno stato di natura in cui gli uomini sarebbero buoni ed eguali e uno sviluppo economico basato sul profitto che avrebbe finito per corromperli. Tesi che ha poi ispirato fino ai nostri giorni alcune posizioni di critica radicale del progresso economico e sociale provenienti sia da sinistra che da destra e delle quali Maffettone chiarisce la natura sostanzialmente reazionaria. Non a caso quelle posizioni finiscono oggi per portare acqua al mulino del nazionalismo, dell’autarchia, dell’autoritarismo, tutte spinte che “al di là dell’immiserimento culturale di cui sarebbero fonte, darebbero origine a un impoverimento economico progressivo del pianeta”.
All’opposto, la conseguenza che Maffettone ricava da quell’ipotesi di lavoro è di ispirazione laica, antiideologica, spingendo – nel solco dell’insegnamento di Voltaire e degli illuministi, liberati a loro volta da ogni eccesso di razionalismo – a ricercare le cause naturali della pandemia e le loro possibili connessioni con un tipo di sviluppo economico e sociale che non ha saputo gestire il necessario ricambio organico tra uomo e natura. Da qui l’impostazione valoriale del libro, basata su un’etica pubblica volta a “rendere, dal punto di vista individuale e collettivo, la responsabilità della persona – la sua consapevolezza cognitiva e critica – più capace di reagire e di tenere conto degli altri”. Si tratta di “riflettere su un senso del limite” che è lo stesso progresso economico e sociale a proporre, giacché “non tutto ciò che si può fare con la tecnica si deve anche fare in una prospettiva economica ed etico-politica”.
Una linea di riflessione, questa sul senso del limite, che richiama senza esplicitarlo un filone di pensiero della sinistra italiana – quello di Franco Rodano e della Rivista Trimestrale – che già negli anni Sessanta e Settanta anticipava le tematiche che oggi sono al centro dell’elaborazione strategica sullo sviluppo sostenibile. A quest’ultima Maffettone dedica un capitolo importante del libro, come espressione di una nuova consapevolezza riguardo agli obiettivi di una diversa e più avanzata fase dello sviluppo economico e sociale dell’umanità. Dove la “pura razionalità” di un homo oeconomicus che persegue solo il proprio interesse individuale sia sostituita dalla “ragionevolezza”, ossia da una consapevole responsabilità che tiene conto anche degli interessi altrui. Si tratta di un orizzonte di crescita e di progresso comune che necessita di una corresponsabilità globale, dunque di “più, non meno, globalizzazione”.
L’Autore sa bene che una simile svolta richiede “condizioni collettive favorevoli e una convinzione interiore forte” ed è per questo che conclude il libro con pagine molto belle sulla riscoperta che la tragedia del coronavirus ci ha fatto fare riguardo alla relazione profonda di ognuno di noi con gli altri. Il desiderio sentito da tanti che, al di là della propria esistenza individuale, rimanga comunque aperta una prospettiva di vita per i propri cari e per la comunità umana nel suo insieme costituisce un duro colpo per l’individualismo e l’egoismo: “al fondo di tutte le dimensioni individuali” sta “un orizzonte di valori comune e condiviso”.
Articolo del 28 giugno 2020 per il Corriere del Mezzogiorno