Ma al Mezzogiorno serve un reddito di cittadinanza o un reddito di inclusione? Non si tratta di una questione terminologica: dietro i nomi ci sono visioni diverse e diverse risposte ai problemi. Vediamole, mettendo per questa volta da parte la questione pur decisiva dei costi per la finanza pubblica, ossia per la collettività.
Quei due nomi fanno riferimento a due impostazioni molto diverse e su questa differenza, sia detto per inciso, esiste un’ampia letteratura scientifica: il reddito di cittadinanza prevede che lo Stato eroghi un reddito a ogni cittadino in quanto tale, quindi a prescindere dalla sua condizione economica e dalla sua disponibilità a lavorare; il reddito di inclusione, al contrario, si rivolge alle persone in condizioni di povertà nonché disponibili a lavorare e a impegnarsi in attività (formazione professionale, scolarizzazione dei figli) di sostegno al reinserimento. Sono due modi opposti di guardare ai diritti e ai doveri nell’ambito di una comunità: con il reddito di cittadinanza si spezza qualsiasi legame tra sostegno pubblico e condizione di bisogno nonché tra reddito e lavoro, con effetti facilmente immaginabili di disincentivo al lavoro e di proliferazione di occupazioni in nero e quindi di illegalità; con il reddito di inclusione il sostegno è volto a contrastare la povertà mantenendo il rapporto tra reddito e lavoro, nel senso che è comunque condizionato ad attività di reinserimento lavorativo e sociale.
La Nota di aggiornamento al DEF presenta un reddito di cittadinanza molto lontano dalla sua valenza di principio, definendo l’intervento come una misura di contrasto alla povertà e condizionata a percorsi formativi vincolanti e all’obbligo di accettare almeno una delle prime tre proposte di lavoro. Insomma, stiamo nei fatti parlando non di reddito di cittadinanza ma di una versione del reddito di inclusione. Come tale andrà valutata quando il Governo ne renderà nota la strumentazione effettiva. La Nota di aggiornamento si limita solo a poche indicazioni generiche, ma da alcune dichiarazioni di esponenti del Governo abbiamo appreso che il percorso di reinserimento sarà curato dai Centri per l’impiego che dovranno essere rafforzati e informatizzati, che il sussidio sarà erogato attraverso una card elettronica e che potrà essere utilizzato solo per acquistare alcuni beni e servizi giudicati “meritevoli”, che chi attesterà il falso rischierà una condanna fino a 6 anni di carcere.
E allora sono lecite alcune domande. La prima: l’erogazione del sussidio comincerà solo dopo il rafforzamento dei Centri per l’impiego e quindi dopo la definizione e l’avvio concreto per il singolo beneficiario del percorso di reinserimento? O il sussidio verrà erogato, come si usa dire, a prescindere? Nel secondo caso, il rischio di disincentivare il lavoro emerso e alimentare il lavoro nero sarebbe fortissimo, finendo per vanificare qualsiasi successivo tentativo di recupero.
La seconda: che bisogno c’è di limitare la libertà di spesa dell’assegno ai soli beni giudicati (dal Governo?) “meritevoli” se si è convinti della efficacia dei controlli sulla condizione economica del beneficiario e della reale attuazione delle attività di reinserimento? E, analogamente, l’innalzamento delle pene per chi denuncia il falso non è forse la spia, come le “grida” di manzoniana memoria, di una sfiducia del Governo nell’applicazione delle regole?
In altri termini, se non si dà priorità al sistema di valutazione della condizione economica e all’attivazione reale dei percorsi di reinserimento, l’intervento rischia di tradire gli obiettivi di contrasto alla povertà e occupabilità dei beneficiari: cacciato (senza dirlo) dalla porta, rientrerebbe dalla finestra il reddito di cittadinanza inteso come “diritto” che nei fatti prescinde dalla situazione reale delle persone e dalla loro disponibilità a lavorare. E’ facilmente immaginabile quanto un simile esito sarebbe esiziale per le prospettive di riscatto del Mezzogiorno.
E allora si esca finalmente dall’equivoco e si lavori a rafforzare ed estendere il reddito di inclusione varato dal precedente Governo. E’ uno strumento che affronta con realismo i due problemi che ho segnalato, condizionando l’erogazione del sussidio, oltre che alla prova dei mezzi tramite Isee, alla previa sottoscrizione tra servizi sociali del Comune e soggetto beneficiario del Progetto personalizzato di attivazione sociale e lavorativa. Nella consapevolezza che una simile misura non sostituisce ma accompagna quegli interventi per la crescita di cui i tanti disoccupati del Sud hanno bisogno.