Caso Ilva. Oggi non è il momento per ostinarsi a rispettare indicazioni avventate di chiusura, formulate quando evidentemente non si era consapevoli dei termini reali dei problemi sul tappeto; né è il momento in cui sfidare chi ha formulato quelle indicazioni a metterle in pratica pena l’accusa di essere un voltagabbana; né è il momento per alzare il prezzo del negoziato sindacale con l’investitore per giustificare un precedente mancato accordo. Oggi è il tempo della responsabilità verso i lavoratori dell’Ilva (13.700 diretti e quasi altrettanti nell’indotto), le loro famiglie, i cittadini di Taranto, Genova, Novi Ligure. Perché di questo stiamo parlando quando parliamo di Ilva, di persone in carne ed ossa con le loro preoccupazioni per il proprio futuro lavorativo e la tenuta sociale della propria città.
Proviamo tutti a guardare le cose con i loro occhi. Spesso, quando trattiamo di temi come l’Ilva, ci soffermiamo sulle cifre – tonnellate di acciaio prodotto, suo utilizzo nel sistema industriale italiano, equilibri di bilancio – e naturalmente è giusto farlo, così come è giusto trarre dal rilievo quantitativo dell’Ilva per l’economia italiana motivi di allarme rispetto a chi non si fa scrupolo di prospettarne la chiusura. Ma più importante ancora è il fatto che dietro quelle cifre ci sono coloro che quell’acciaio producono e che rivendicano la dignità del proprio lavoro, dell’essere coloro dalla cui intelligenza e dalle cui mani proviene l’acciaio con cui sono fatti macchinari produttivi, mezzi di trasporto, strumenti della nostra vita quotidiana. Una dignità che non può essere soppiantata da un mondo di sussidi in un tragico deserto produttivo. La questione che si pone oggi a Taranto, a Genova, a Novi Ligure, è quella di ricomprendere in una unica prospettiva la dignità del lavoro e la dignità della salute e della qualità della vita dei cittadini, in una parola la coesione sociale e civile delle nostre città.
Si abbia allora il coraggio di ripartire con senso di responsabilità dal punto a cui si era giunti alla vigilia del cambio di governo. L’esecutivo precedente aveva prima individuato tramite gara europea l’investitore che presentava il piano ambientale migliore nel rispetto delle prescrizioni del Governo (più avanzate delle cosiddette BAT, ossia delle migliori tecnologie disponibili definite dagli standard europei) e il piano industriale più robusto in termini di prospettive di investimento, produzione e occupazione a regime. Aveva poi completato l’iter di rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale e superato l’esame antitrust della Commissione Europea. Infine, aveva favorito un accordo tra le parti sociali che era ormai a uno stadio molto avanzato: impegni di Arcelor Mittal sul fronte occupazionale – almeno 10.000 a regime – superiori a quelli iniziali; garanzia di mantenimento con contratto a tempo indeterminato di tutti gli altri lavoratori presso l’Amministrazione Straordinaria per attività di bonifica delle aree esterne agli stabilimenti ceduti; incentivi molto consistenti alle uscite volontarie; impegno di Arcelor Mittal a preferire le aziende locali dell’indotto a parità di costo e qualità della fornitura, con effetti importantissimi per la tenuta occupazionale a Taranto, Genova e Novi Ligure. E in parallelo con questo processo di riqualificazione ambientale e produttiva di Ilva, il Governo già dal 2016 ha avviato con il Contratto istituzionale di sviluppo per Taranto un’azione di risanamento ambientale di tutto il territorio tarantino, di rilancio del turismo e di riqualificazione urbana, di potenziamento infrastrutturale del porto e diversificazione produttiva.
Ora il tempo sta per scadere: il 30 giugno è la data fissata per la conclusione dell’accordo di cessione di Ilva ad Arcelor Mittal e la cassa a disposizione dell’Amministrazione Straordinaria si esaurirà con il mese di luglio. Se si riescono a ottenere ulteriori miglioramenti dell’accordo con l’investitore ben vengano. Ma nessuna pur comprensibile esigenza politica faccia velo alla questione che tutti devono avere a cuore: il destino di oltre ventimila lavoratori, delle loro famiglie, delle loro comunità.